Storia di Gianni Ribaldone
Gianni Ribaldone é nato a Cavour il 25 agosto del 1942.
I suoi genitori sono Angela Scaraffia e Natalino Ribaldone, proprietario della farmacia di Cavour, Gianni era fratello di Felice (1940) e Tina (1946).
A Genova:
Nel 1950 la famiglia Ribaldone si trasferì a Genova, perché il padre abbandonando la farmacia del paese di Cavour, ne acquistò una nel capoluogo ligure.
Gianni frequentò le medie e poi il liceo A. Doria, e man mano che cresceva, manifestava una gran quantità di interessi in campi diversi:collezionava francobolli e monete, e dipingeva quadri, ma i maggiori interessi erano quelli scientifici, specialmente nelle scienze naturali.
Così Gianni, a soli 14 anni cominciò a frequentare il gruppo speleologico di Genova “Arturo Issel”.
Seguiva il professor Ghidini nelle ricerche biologiche e la professoressa Leale Anfossi nelle ricerche archeologiche condotte in val Pennavaira.
Con l’occasione scoprì anche che le grotte non sono solo un archivio archeologico, ma anche un fecondo terreno per chi ama gli studi di geologia, di fisica e di biologia.
Cominciò inoltre a provare il piacere di esplorare l’ignoto e si accorse di avere una buona predisposizione per l’arrampicata.
Era veloce ad assolvere i compiti scolastici e così trovava tanto tempo libero per coltivare i propri interessi.
Con l’amico Dinale eseguiva studi sulle migrazioni dei chirotteri che furono oggetto di una interessante pubblicazione e contemporaneamente, se aveva un paio di ore libere si esercitava ad arrampicare sulle rocce di Sampierdarena.
In pochi anni diventò l’elemento di punta del gruppo Issel.
Scoprì e descrisse un gran numero di grotte e pubblicò l’elenco catastale delle grotte liguri.
Ma soprattutto riusciva a risolvere i problemi tecnici che invece bloccavano gli altri.
Presso il sifone terminale della grotta Taramburla, in val Pennavaira, vincendo estreme difficoltà riuscì a raggiungere un foro sul soffitto e così ad esplorare un nuovo tratto di grotta dove per anni nessuno riuscì più a metter piede.
Nel 1960 lo troviamo alla grotta dei Rugli, in val Fervia: attraversa a nuoto il lago che precede il sifone terminale e con un’esposta arrampicata di 10 metri scopre un sistema di gallerie superiori, fino a un nuovo sifone.
Ancor oggi quel passaggio é chiamato “salita Ribaldone”.
Per Gianni, inizialmente l’arrampicata era solo un mezzo per esplorare le grotte, ma presto scoprì che la gioia di arrampicare su una montagna può anche essere fine a se stessa.
Da Genova le montagne sono distanti; ciò non di meno, destreggiandosi con gli orari dei treni e dei pullman, poteva spesso raggiungere il gruppo dell’Argentera e compiere ascensioni già di un certo livello, rientrando poi a Genova giusto in tempo per andare a scuola, talvolta senza aver quasi dormito.
A Torino:
Nel 1960 Gianni Ribaldone si iscrive al Politecnico di Torino.
Vivendo buona parte dell’anno in questa città inizia quell’attività alpinistica che dovrà portarlo in breve tempo a inserirsi fra i migliori arrampicatori del suo tempo; contemporaneamente continua la sua attività speleologica, curando sopratutto l’esplorazione e gli studi fisici.
Vivendo lontano da casa egli aveva maggior libertà. Non che i genitori gli impedissero la pratica sportiva, ma certo non erano entusiasti di trascorrere le domeniche nel continuo timore di qualche incidente.
Di soldi glie ne davano pochissimi anche se nessuno lo ha mai sentito lamentarsi.
Il fatto é che Gianni conosceva alcuni espedienti per vivere spendendo pochissimo.
Certe volte il cibo che metteva nello zaino era costituito solo da pane e lardo, e ci spiegava che quel tipo di dieta era oltremodo calorico.
Più di una volta, in mancanza di programmi specifici, andava ad arrampicare in Grigna partendo con un biglietto ferroviario di sola andata.
Sapeva che la, il suo amico Merendi gli avrebbe presentato dei turisti ben contenti di arrampicare con un alpinista bravissimo, ma senza la patente di guida e pertanto a tariffe più basse.
Infine pare che la famiglia gli desse dei soldi per comprarsi un vestito, o un soprabito, ma che i soldi venissero poi dirottati per un attrezzo di alpinismo o di speleologia.
La serietà con cui Gianni intraprendeva i difficili studi di ingegneria non gli consentiva un’attività intensa come altri colleghi, ma è per la qualità delle sue salite che riesce a imporsi all’attenzione dell’ambiente alpinistico torinese, pur dominato da personalità come Bertone, Manera, Mellano, Rabbi, Ribetti e altri.
Nel 1961, infatti sale la cresta sud dell’Aguille Noire de Peutérey, la parete sud del Castore e infine effettua la prima ripetizione della direttissima dei Francesi alla sud del Corno Stella (Alpi Marittime), con Alberto Marchionni, anch’esso giovanissimo e suo compagno di Politecnico.
Con Marchionni si lega presto con un amicizia veramente fraterna da lui è introdotto nell’ambiente della scuola ” Gervasutti “, con lui compirà una serie di scalate di grande prestigio, in generale a comando alterno.
E’ sufficiente a Gianni ancora un solo anno, il 1962 per essere classificato tra i migliori e più attivi arrampicatori della scuola torinese.
La bontà e il suo carattere gli accattiva le simpatie di chiunque lo conosca e condivida con lui le gioie e i disagi dell’alpinismo, come della speleologia e della vita stessa di ogni giorno.
Entra a far parte del Gruppo Alta Montagna del CAI Uget, di cui in seguito verrà eletto vicepresidente.
In questo anno inizia la sua attività da istruttore della scuola nazionale di alpinismo ” Giusto Gervasutti ” che continuerà negli anni, fino alla sua morte.
Fin dal giorno del suo arrivo a Torino era già istruttore dei corsi di speleologia, e anche questa attività la svolse senza interruzione fino alla morte.
Se il 1962 lo ha visto tra i più attivi alpinisti torinesi, il 1963 lo inserisce decisamente nell’ élite dei fortissimi.
La sua tecnica si è affinata, ardimento e la prudenza hanno trovato il loro giusto punto di equilibrio ideale, il fisico non teme le prove più dure e un intelligenza non comune ne vigila l’esuberanza.
Con Marchionni è l’unico torinese a essersi cimentato con i tremendi sesti gradi delle Dolomiti.
Evitiamo di elencare tutte le salite svolte nelle Dolomiti, nelle Alpi occidentali e nelle Apuane, ma ricorderemo solo una salita che stupì tutti i colleghi: percorse la via Graffer al Pilastro occidentale della cima Tosa in 4 ore, quando cordate notoriamente veloci come la Maestri-Egger e la Livanos-Gabriel ne avevano impiegate 7 e 11 rispettivamente.
LA SPLUGA DELLA PRETA
Ma nel 1963 l’impresa che gli diede lustro e risonanza mondiale fu condotta in una grotta veneta.
Dal 4 al 15 luglio Gianni partecipa con il Gruppo Speleologico Piemontese alla spedizione nazionale alla Spluga della Preta, il terribile abisso dei Monti Lessini che dal 1925 era stato oggetto di numerose e massicce spedizioni, ognuna esplorava la grotta più in profondità di quella precedente, ma nessuna riusciva mai a raggiungere il fondo.
Si andava creando la leggenda che la Preta fosse l’abisso più difficile, terribile e profondo del mondo.
Anche la “super-spedizione nazionale” dell’anno precedente, cui avevano partecipato una cinquantina fra i più noti speleologi di Italia, si era dovuta fermare a quota -578.
Alla Preta Gianni andò con una spedizione leggera e veloce, cui presero parte Marziano di Maio del G.S.P., due amici di Faenza e quattro di Bologna.
Si è trattato di una massacrante operazione ( otto giorni e otto notti ininterrottamente sotto terra, tre soli bivacchi, sempre bagnati e a corto di viveri); ma il successo conseguito, e cioè l’esplorazione completa e il nuovo primato italiano di profondità (875 m, 2a profondità mondiale) in gran parte è dovuto a lui, che con l’amico Giancarlo Pasini di Bologna raggiunse il fondo dell’abisso il 10 luglio.
Ma per Gianni la gioia più grande non fu certo quella di aver raggiunto il fondo o di aver contribuito al conseguimento del record di profondità, perché egli non concepiva la speleologia dal punto di vista agonistico ma bensì la teneva in conto di scienza e ne traeva oltretutto le gioie che derivano dall’ osservazione della natura e dei suoi fenomeni.
Appena uscito dalla grotta raggiunge le Dolomiti e in quella estate compie una serie incredibile di ascensioni.
La sua attività continua intensissima nell’inverno seguente e per tutto il 1965.
Particolarmente notevoli alcune prime invernali come lo spigolo Graffer allo spallone del Campanile basso del Brenta, il Piller Gervasutti al Mont Blanc di Tacul e la prima ascensione allo spigolo NE del Petit Capucin.
NON SOLO TECNICA
Non sto ad indicare tutte le imprese di Gianni Ribaldone.
Per il lettore non alpinista rischia di essere un elenco noioso, un curriculum che del resto a suo tempo hanno messo in evidenza, tra le quali il bollettino “Grotte” del GSP (n. 21/1963) da cui anzi ho tratto numerose notizie.
Mi preme comunque sottolineare che Gianni univa all’abilità tecnica una straordinaria prudenza e modestia.
A questo proposito ricordo che quando nel 1963 il gruppo “Alta Montagna”del Cai Uget organizzò una spedizione alpinistica in Himalaya, Gianni non vi prese parte.
Gli chiesi come mai fosse stato escluso, visto che le sue capacità non erano certo inferiori a quelle di coloro che vi avevano preso parte.
La sua risposta fu:
” II medico ha detto che alla mia età un soggiorno prolungato in alta quota può essere pericoloso, forse è una balla, ma se fosse vero? Nel dubbio preferisco rinunciare in futuro avrò tante occasioni per andare in Himalaya “.
E invece di occasioni non ne ebbe più.
Il 1966 è l’anno in cui Gianni deve concludere gli studi di ingegneria mineraria e pertanto non vuol concedersi eccessive distrazioni.
Non rinuncia però alla consueta opera di istruttore del corso di speleologia prima e della scuola di alpinismo ” Gervasutti ” poi, mentre ogni tanto si lascia tentare dalle gite sci-alpinistiche o da qualche facile scalata per accompagnare i giovani ad acquisire familiarità con la montagna.
Perché egli non diceva mai di no a chi manifestasse l’entusiasmo, ed era felice di percorrere con lui la via normale alla Rocca Sella tanto come la Cassin alla Piccolossima di Lavaredo, o di accompagnarlo in sci sulla montagnola con 500 metri di dislivello tanto come sul Monte Bianco.
Nell’autunno del 1965 era stato uno dei fondatori del Corpo di Soccorso speleologico “Eraldo Saracco”, le cui squadre dovevano poi essere incorporate nell’organico del Soccorso alpino del CAI, corpo al quale egli apparteneva già da quattro anni.
Anche in grotta la sua opera di volontariato purtroppo non doveva tardare a rivelarsi necessaria: rientrato a casa a mezzanotte del 25 aprile 1966 da una uscita di istruzione della Gervasutti, veniva svegliato al mattino presto perché chiedevano soccorso da Roncobello, dove alcuni speleologi bolognesi erano in difficoltà.
Partito immediatamente con la squadra di Torino, entrava in grotta e scendeva sino al pozzo dove un’ impetuosa cascata d’acqua impediva di raggiungere i sei uomini bloccati, tra i quali erano anche due soccorritori gravemente feriti, i bolognesi Donini e Pelagalli che poi purtroppo non saranno recuperati vivi.
Studiata bene la situazione, Gianni si calava nel pozzo: il suo arrivo rianimava i bloccati, tre dei quali egli aveva conosciuto alla Preta; constatato come per uno dei due feriti purtroppo non vi fosse nulla da fare, egli si caricava l’altro a spalle con il sacco Gramminger e sotto la cascata riusciva a farlo salire sino alla sommità del pozzo.
Per questo intervento gli fu conferita la medaglia d’oro al valor civile, con suo stupore, giacché nella sua grande modestia gli pareva di non aver compiuto nulla di eccezionale, ma solo il suo dovere.
Con questa impresa Gianni Ribaldone divenne noto al grande pubblico, ma egli non sopravvisse che due mesi alla notorietà.
Il 2 luglio sale al rifugio Torino con altri istruttori e con un gruppo di allievi della Gervasutti.
La mattina seguente attacca ancora al buio, con due allievi, Domenico Navone ed Euro Bosco, il canalone Gervasutti al Mont Blanc di Tacul.
All’alba la tragedia.
Mentre Gianni guida la cordata su per lo scivolo ghiacciato, uno degli allievi rimasti fermi sul terrazzino cade trascinando giù gli altri.
Una cordata che segue dappresso vede Gianni frenare con la piccozza, con tutte le forze, ma non c’era niente da fare contro l’ineluttabile e dopo un po’ la piccozza di Gianni cessa di mandare scintille.
450 metri più in basso tre corpi giacciono inanimati.
Quando il 5 luglio, dal Museo della Montagna, sul Monte dei Cappuccini, Gianni parte per l’ultimo viaggio, c’è una gran folla, ma è solo una piccola parte di quelli che gli volevano bene, come testimoniano anche le 1200 partecipazioni ricevute dalla famiglia.
Per l’estremo saluto erano giunti da ogni parte anche i compagni di cordata e gli speleologi, questi ultimi anche da Bologna, e tra loro quelli salvati a Roncobello per accompagnarlo sino a Savigliano, ove riposa.
L’INSEGNAMENTO DI GIANNI
Qui finisce la storia della breve vita di Gianni Ribaldone.
Cosa ci ha lasciato?
Alcune pubblicazioni di speleologia, che si trovano elencate a parte.
Sono poche in rapporto a quella che è stata la sua attività, perché scriveva, e di malavoglia, solo quando aveva da comunicare delle cose utili e ne veniva richiesto.
Non cercava certo la “carriera accademica”.
Ci ha lasciato un voluminoso testo di quella che avrebbe dovuto essere la sua tesi di laurea, frutto di uno studio su una miniera di cinabro a M. Amiata.
Era infatti prossimo alla laurea.
Ai piedi del M. Bianco nel suo zaino fu trovato un libro di scuola su cui aveva studiato la sera precedente, in rifugio.
Avrebbe dato l’esame di lì a pochi giorni; ancora un altro esame ed era pronto per la laurea, prevista per ottobre.
Gianni ha lasciato al Museo speleologico di Garessio una collezione di 303 coleotteri (ne aveva ancora altri, che sono tuttora presso la sua famiglia).
Una collezione di perle di grotta è stata poi regalata dalla famiglia allo stesso Museo.
Ma a chi, come me, ha avuto la fortuna di conoscerlo, Gianni ha lasciato di più.
Benché più giovane di me, ha insegnato molte cose di speleologia, e mi ha insegnato a vivere sempre in allegria, serenità e amicizia.
Raramente parlava delle sue imprese, se uno gli chiedeva informazioni, si limitava a rispondere alla domanda senza aggiungere niente di più, minimizzando le sue imprese e deviando subito il discorso su qualche particolare di sapore umoristico.
Nessuno potrà dimenticare la sua bontà, la sua franchezza, la sua risata viva e schietta, il suo cantare le vecchie canzoni piemontesi. I suoi allievi lo stimavano, oltre che per la pazienza e l’entusiasmo con cui istruiva, anche perché non metteva alcuna distanza fra sé e loro.
Fra le due città in cui è vissuto più a lungo, Genova e Torino, è stata la prima e dimostrargli la maggiore stima e riconoscenza, dedicandogli una via nei pressi dello svincolo autostradale di Nervi; sulla targa si legge: “Via Gianni Ribaldone -speleologo, medaglia d’oro al valor civile – 1942-1966”.
Tratto dalla rivista del Cai sett/ott 1999
Scritto da Carlo Balbiano d’Aramengo (G.S.P. CAI Uget, Torino)